Rezension zu:

GERHARD STREMINGER, Gottes Güte und die Übel der Welt. Das Theodizeeproblem, Mohr, Tübingen 1992.

Filosofia e Teologica
Ausgabe 2/1993 Crisi e critica della teodicea, S. 435-438

I due volumi rappresentano l’ultima parola, in senso cronologico, del dibattito sulla teodicea. Nel loro insieme essi esprimono tutto lo spettro possibile delle varianti del tema in questione. Mi sembra significativo che essi in sostanza sostengano rispettivamente le due posizioni antinomiche che sono possibili nell’affrontare la teodicea.

In effetti Streminger smonta uno ad uno tutti gli argomenti possibili addotti dalla teodicea. Naturalmente questo risultato viene ottenuto riducendoli alla loro torma logica essenziale, secondo una impostazione tipica della filosofia analitica di stampo anglo-americano. Poi si fa vedere come l’argomentazione della teodicea ha bisogno continuamente di «assunti supplementari»; l’autore li chiama Brückenannahmen, per denotare la loro funzione nel concatenare premesse argomentative tra loro non congiunte da un termine medio. Ciò significa che esse non sono concludenti se non a condizione di introdurre un termine medio, appunto l’«assunto supplementare». Esso però di fatto costituisce un quarto termine surrettizio. Insomma, per concludere efficacemente la dimostrazione della giustificazione del male nel mondo, il teismo ricorre di continuo, secondo quanto evidenzia l’autore, alla fallacia logica del quarto termine. Peraltro il teismo costituisce l’interlocutore di tutta la lunga e precisa disamina di Streminger. Ma c’è da lamentare che egli non abbia operato un discernimento altrettanto analitico, e invero con gli stessi strumenti logici che gli permettono di destrutturare l’argomentazione teistica nelle sue componenti logiche elementari, del suo possibile interlocutore quale referente di una possibile teodicea. Come se questa fosse possibile unicamente dalla visuale del «teismo», e in particolare di quel teismo che qui viene messo in conto. In effetti tutto il confronto istituito dall’autore si riduce ad un dibattito, sia pure efficacemente ricondotto alle sue componenti logico-argomentative, tra ottimismo (il teismo preso in considerazione da Streminger) e pessimismo. Francamente mi sembra un terreno assai poco preciso e soprattutto niente affatto consistente per sviluppare un confronto adeguato. In verità la posizione teorica del pessimismo ispira la visuale dell’autore, il quale palesemente si raccorda a un certo illuminismo (soprattutto inglese: Hume) a Schopenhauer e a Nietzsche. Bisogna aggiungere che questa posizione teorica, su cui è intessuto l’intero dibattito, appare sorretta dall’unica argomentazione che fa perno sulla confutazione della posizione avversa. Come dire che se il teismo (e il suo ottimismo) non si sostiene, allora risulta confermato il pessimismo. Decisamente un argomento privo di consistenza logica. Beninteso il lavoro di Streminger non è da buttare via, perché contiene spunti esplicativi importanti per una corretta impostazione del problema della teodicea, o almeno per una sua corretta intelligenza. Penso ad esempio al modo col quale in fase di istruttoria del suo dibattito egli precisa il nocciolo aporetico fondamentale che istituisce il problema del «male non giustificato». È effettivamente la radice del problema della teodicea. Mi sembra giusto enumerare qui quelli che mi sembrano i risultati più interessanti della sua indagine. Anzitutto egli coglie i due nodi che creano il problema: da un lato ‘«immagine di Dio» e dall’altro il problema del male (o, come si precisa giustamente, del dolore) non giustificato, quella che Levinas chiama la «sofferenza inutile». Anche se poi di fatto l’«immagine di Dio» registrata è quella che l’autore qualifica come «tradizionale», e che egli maneggia con uno strumento critico assai poco attendibile, tanto da ricordare un certo. ricorrente illuminismo di risulta, che mi pare agli antipodi delle istanze vitali dell’illuminismo storico. Basti confrontare tutta la sua presentazione del «Dio sofferente» (p. 191 ss); appare incredibile che con tutti gli strumenti critici in nostro possesso si possa erogare una intelligenza così approssimativa dei testi e del messaggio all’origine del cristianesimo. In secondo luogo l’autore decostruisce con buona pertinenza logica la consistenza di molti argomenti della teodicea tradizionale. Qui da un lato sono investiti gli «assunti supplementari»: quello della «natura ordinata», ovvero dell’ordine che regna nella natura fisica. quello della consistenza estetica del mondo, ovvero della bellezza del cosmo, quello dell’ordinamento etico del mondo. Dall’altro sono messi in dibattito i tentativi esperiti per aggirare il problema che solleva la questione base della teodicea: la dottrina del male come privazione, il motivo del «Dio sofferente», e là questione della giustizia ultraterrena.

In tutto questo ampio ventaglio dell’esame critico Streminger ottiene risultati efficaci e condivisibili nella sua invalidazione critica; assai meno efficace e condivisibile, invece, è il passaggio che egli compie dalla critica alla giustificazione del proprio punto di vista. In questo caso infatti di norma la sua conclusione oltrepassa di molto quello che gli è consentito dal dispositivo delle premesse. Infine importante e da condividere mi sembra il risultato cui conduce la lunga e articolata analisi dell’autore, la quale si presenta come una pars destruens mirante all’istituzione di alcuni punti fermi. Ebbene uno dei punti fermi è questo. In presenza del male nel mondo, che l’autore intende soprattutto (e non penso gli si possa dare torto) come sofferenza, invece di sollevare l’interrogativo sulla sua finalizzazione o sul suo senso, che è poi l’interrogativo che dà adito a coinvolgere Dio nella questione, perché non ci diamo da fare, ricorrendo alle risorse della ragione, e quindi non riponendo la fiducia in qualcosa di aleatorio, come il Dio del teismo, per confinare e ridurre attivamente quello che costituisce la forma più effettiva e meno tollerabile del male nel mondo, cioè il dolore e la sofferenza? E in proposito l’autore ci offre anche uno schizzo di «vita buona», una sorta di igiene esistenziale, cui vengono dedicate le pagine forse più belle di questo libro. Questa proposta raggiunge sintomaticamente alcuni risultati minimali che sono comuni alla cultura del postmoderno. Il primo è la direttiva a fruire delle cose belle che la vita offre. Il secondo è l’impegno a far fronte comune con gli altri uomini (la solidarietà) per venire a capo della situazione tragica in cui versa la vita umana soprattutto per la presenza inaggirabile della morte. Ma si tratta di risultati minimali che possono essere assunti soltanto come motivazioni preliminari e come condizioni necessarie ma non sufficienti. A meno che non si vogliano chiudere gli occhi davanti alla portata effettiva della posta in gioco problematica. Ma allora si opererebbe una «epoché» alla rovescia, che beninteso si accorda male con il richiamo al «primato della ragione» su cui fa leva il discorso di Streminger. Il secondo punto fermo è la contestazione radicale e su tutti i fronti del Dio del teismo. In verità questa contestazione appare con ogni evidenza come il movente primo di tutta l’indagine, anche se essa appare tematicamente solo alla fine, quando si argomenta intorno alla incompatibilità reciproca degli attributi di Dio, alla incongruenza della bontà di Dio in rapporto al male del mondo, alla indimostrabilità stessa dell’Tesistenza di Dio. Beninteso Streminger è convinto fin dall’inizio dell’inconsistenza dell’ipotesi teistica, e dunque fin dall’inizio e convinto che la questione del male sollevi un problema di carattere meramente «fisico» senza alcuna rilevanza né metafisica né etico-teleologica. Insomma per lui è chiaro a priori che il problema della teodicea non si pone, o almeno che non si pone così come la teodicea del teismo pretenderebbe porlo. Tutto il suo decorso argomentativo è funzionale a questa tesi, e assume l’onere della critica del punto di vista teistico unicamente alla maniera del ragionamento per elenchos, assumendo che la sua confutazione equivalga alla dimostrazione del proprio punto di vista.

Ma a questo punto mi sia permessa una osservazione che mentre da un lato intende fornire un criterio di giudizio sull’argomentazione di Streminger, dall’altro apre la strada alla considerazione del volume curato da W. Oelmüller, che si colloca in una postazione teoretica antitetica a quello di Streminger. L’argomentazione di Streminger fa perno su un passaggio essenziale che difficilmente resiste alla critica, e che rappresenta il punto debole, quello meno condivisibile, del suo ragionamento peraltro assai attento ad accertare la valenza logica degli argomenti. In definitiva egli non tiene conto della riserva, a suo tempo enunciata da Kant, relativa al discorso su Dio. Questo discorso non può mai essere, almeno in linea diretta, un discorso su un esistente che ci sia dato nell’esperienza. E ciò anche nel caso che si debba concedere (come penso che vada concesso) che tale idea abbia nella propria intenzionalità un esistere che supporta un’essenza e non viceversa; il problema vero su questo piano è che quell’esistere non può essere concettualizzato, e potrebbe essere eventualmente soltanto dato in una esperienza. In verità in forza di questa riserva critica fondamentale, per cui lo statuto del nostro discorso sul divino (ammesso che non sia un discorso relativo ad una esperienza religiosa) fa riferimento sempre e necessariamente a contenuti ideali, non reali, la difficoltà più propria del discorso sulla teodicea, comunque venga impostato (sia in termini affermativi, sia in termini negativi o liquidatori), mette in questione l’elemento della nostra esperienza del male da un lato e la nostra idea di Dio dall’altro. Si tratta allora di due polarità non omologabili in sede di discorso logicamente attrezzato; di qui il-rischio di cadere continuamente in una fallacia logica, e di operare una metabasis non garantita criticamente dall’elemento reale (l’esperienza del male) all’elemento ideale (Dio) coinvolti nella discussione. Ed è quanto precisamente avviene, a mio avviso, lungo tutto il corso dell’argomentazione di Streminger.

Sergio Sorrentino